23 Novembre 2011
Se abbandoniamo il territorio è la fine

Il territorio merita rispetto. E la terra che ci da vita non può essere considerata soltanto come fonte di profitto, ma come un bene comune per l’intera comunità. Le frequenti sciagure degli ultimi tempi, un anno fa l’alluvione che ha colpito il Vicentino ed in tempi più recenti la maledizione che si è abbattuta sulla Liguria, sono il chiaro segnale dell’abbandono del territorio da parte dell’uomo, ritenendo la terra non più capace di garantire un profitto sufficiente per assicurare la vita di chi la coltiva. Il nostro Paese frana perché quasi il venticinque per cento del territorio è stato abbandonato o coperto dal cemento. La situazione è chiaramente descritta da un recente studio condotto da Coldiretti, che evidenzia come un territorio grande due volte la Lombardia, per un totale di cinque milioni di ettari equivalenti, è stato sottratto all’agricoltura. L’agricoltore una volta controllava il campo, sapeva drenare l’acqua, sapeva governare il territorio. Ed oggi? Oggi siamo costretti ad abbandonare le colture, che non ci permettono più di mantenere la nostra famiglia. Come scriveva il poeta trevigiano Andrea Zanzotto: “siamo passati dai campi di sterminio allo sterminio dei campi”. Le enormi quantità di legna che scorrono sui fiumi tra l’acqua infangata sono il chiaro segnale dell’abbandono del territorio: i disboscamenti non vengono più effettuati e la natura fa tutto da sé, con i danni che appaiono davanti ai nostri occhi ad ogni acquazzone. Danni che costeranno al sistema sociale molto di più che pagare il prezzo giusto del prodotto agricolo, per far sì che le imprese continuino ad essere sul territorio, assicurando il mantenimento e lo sviluppo dell’economia locale e la corretta gestione del territorio stesso. L’esempio del Trentino dovrebbe farci riflettere. Nella regione montana, infatti, ci sono le medesime problematiche di cui soffre il nostro territorio, ma adeguate strategie politiche consentono di prevenire questi disastri, preservando territorio e vite umane. Come ha recentemente ricordato il presidente nazionale Sergio Marini “l’agricoltore, quando vive in campagna, è naturale che operi una serie di azioni di prevenzione: la pulizia delle scoline, dei fossi, ma anche lo stesso manto erboso, la stessa vegetazione hanno un importantissimo effetto nel rallentare l’azione e l’intensità delle acque, favorendone l’assorbimento. Normalmente, dove c’è agricoltura i fenomeni sono più diradati e questo è un problema storico a cui dovremo porre rimedio”. Il territorio è fragile e la politica non sta facendo nulla per realizzare contromisure adeguate di tutela del patrimonio che tutti quotidianamente osserviamo. Negli anni abbiamo fatto uno straordinario lavoro. Noi agricoltori siamo sempre stati custodi del territorio, affrontando la dura legge della natura, che impone l’alternarsi delle stagioni, ma anche siccità, grandinate ed altri eventi che pregiudicano il nostro operare quotidiano. Oggi la società cerca le spiegazioni più stravaganti a ciò che è accaduto, scomodando spesso complesse teorie della fisica, che poco interessano a coloro che hanno perso la casa e tutti i propri affetti, magari anche i propri cari. Occorre guardare in faccia la realtà dei fatti, che è assolutamente evidente. Vanno ripensate l’urbanizzazione e le modalità di sviluppo delle città, che non possono estendersi in aree in cui il pericolo sia così elevato per l’uomo e per la stessa natura. Quella stessa natura che deve farci paura, come accadeva un tempo, specie a fronte delle grandi modificazioni che l’uomo ha messo in atto negli ultimi decenni e secoli. La classe politica si attivi per attuare politiche per favorire la permanenza degli agricoltori nelle campagne. Bisogna fare la manutenzione del terreno ed è in questa direzione che devono andare le risorse.

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